Approfondimento Prof.ssa Maria Giovannone, Responsabile Ufficio Salute e Sicurezza di ANMIL, e Cesare Damiano, Consigliere Amministrazione INAIL su “Etica Economia”.
“Intorno al tema dell’equiparazione del contagio da COVID-19 all’infortunio sul lavoro, si è sviluppato un intenso dibattito circa il periodo di ampliamento della responsabilità del datore di lavoro. Con questo articolo abbiamo inteso fornire un supporto interpretativo per le imprese e per gli operatori della sicurezza, al fine di contribuire a sgombrare il campo da eventuali dubbi interpretativi”.
I recenti dati forniti da INAIL sull’andamento dei contagi da COVID-19 nei luoghi di lavoro evidenziano, al 15 maggio 2020, 43.570 denunce di infortunio di cui 171 con esito mortale. Si tratta di numeri che riconducono, immediatamente, gli addetti ai lavori alla equiparazione dell’infezione da COVID-19 contratta in occasione di lavoro o in itinere ad infortunio sul lavoro con causa virulenta, operata dall’art. 42, co. 2, del D.L. n. 18 del 17 marzo 2020 (c.d. Cura Italia), convertito in legge con modificazioni dalla L. n. 27/ 2020; una equiparazione cui consegue, come noto, la possibile applicazione del regime giuridico per il riconoscimento delle tutele INAIL di cui al D.P.R. n. 1124/1965, a favore del lavoratore colpito dall’infezione o dei suoi familiari in caso di decesso del lavoratore stesso.
Intorno a questo tema, già all’indomani dell’entrata in vigore di detta disposizione, si è sviluppato un intenso dibattito circa il pericolo di ampliamento, che la richiamata previsione avrebbe determinato, della sfera di responsabilità datoriale, tanto in sede civile quanto in sede penale. Un presunto allargamento delle responsabilità che renderebbe, di fatto, ancor più difficile fare fronte alla ripresa delle attività nella c.d. “Fase 2”.
Con questo contributo, si intende fornire un supporto interpretativo a favore delle imprese e degli operatori della sicurezza, sgomberando così il campo dalle preoccupazioni sopra paventate, posto che la previsione dell’art. 42 del D.L. n. 18/2020, come si dimostrerà nel prosieguo, non ha introdotto nel nostro ordinamento alcuna nuova fattispecie di reato a carico degli imprenditori, a seguito della inosservanza delle norme antinfortunistiche.
Al riguardo, giova sottolineare che l’equiparazione della infezione da COVID-19, contratta in occasione di lavoro o in itinere, ad infortunio sul lavoro, è avvenuta per mezzo di un provvedimento normativo, non di certo ad iniziativa dell’INAIL, come pur erroneamente sostenuto da alcuni organi di stampa. Alla luce di queste previsioni, dunque, l’INAIL è stata investita esclusivamente del compito di valutare, nell’esercizio delle sue funzioni amministrative, le istanze dei lavoratori o delle loro famiglie, di riconoscimento dell’infortunio da COVID-19, provvedendo, in caso di accoglimento dell’istanza, ad erogare le correlate prestazioni.
In merito alle categorie di lavoratori interessati dal predetto provvedimento, inoltre, come chiarito dalla circolare n. 13 del 3 aprile 2020, l’ambito della tutela INAIL riguarda gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata l’alta probabilità che gli stessi vengano a contatto con il nuovo coronavirus.
Di analoga presunzione semplice, si avvalgono poi coloro che svolgono altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico. In via esemplificativa, ma non esaustiva, sono stati indicati: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizia, operatori del trasporto infermi, etc… Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice, già valido per gli operatori sanitari. Diversamente, per tutti gli altri lavoratori generalmente destinatari della tutela assicurativa INAIL, non vige un regime probatorio agevolato, essendo in ogni caso il lavoratore tenuto a dimostrare – quantomeno con elementi anamnestici e clinici- la certa correlazione al lavoro della infezione; una prova comunque difficile da ottenere, data la multifattorialità e le limitate conoscenze scientifiche circa la eziopatogenesi del virus. Come chiarito peraltro dallo stesso Istituto, non esiste alcun automatismo giuridico nel riconoscimento dell’infortunio da COVID-19 da parte dell’INAIL poiché l’Istituto, ai fini della tutela infortunistica, deve comunque valutare le circostanze e le modalità dell’attività lavorativa dalla quale sia possibile trarre elementi gravi per giungere ad una diagnosi di alta probabilità, se non di certezza, dell’origine lavorativa della infezione. Tale iter, peraltro, vale sia per i lavoratori assistiti da presunzione semplice che per coloro che non beneficino di tale alleggerimento probatorio, non potendosi in ogni caso – le due categorie di lavoratori considerate – mai avvalere di una presunzione assoluta; l’unica, nel nostro ordinamento, nei confronti della quale non è ammessa prova contraria.
Andando alla più complessa questione delle responsabilità datoriali, si osserva come la introduzione normativa della mera possibilità di riconoscere, in sede INAIL e al ricorrere di tutti gli elementi formali e sostanziali richiesti di non facile dimostrazione, le tutele assicurative e indennitarie previste, non abbia determinato alcuna modifica delle norme penali vigenti, né quelle codicistiche né tantomeno quelle dettate dal micro-sistema sanzionatorio del Testo Unico di SSL. La previsione, infatti, ha più semplicemente esteso l’ambito di erogazione dell’indennizzo INAIL, non potendosi pertanto confondere i presupposti per l’erogazione di detto indennizzo con quelli per la responsabilità del datore di lavoro. Infatti, come chiarito dell’INAIL nella circolare n. 22 del 20 maggio 2020, il riconoscimento del diritto alle prestazioni erogate dall’Istituto non può assumere rilievo per sostenere l’accusa in sede penale, essendo la responsabilità del datore di lavoro ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei Protocolli delle Parti sociali e nelle linee-guida governative e regionali di cui all’articolo 1, comma 14 del D.L. 16 maggio 2020 n. 33.
Inoltre, non si possono confondere i presupposti per l’erogazione di un indennizzo INAIL con quelli per la responsabilità penale e civile, che devono essere rigorosamente accertate con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative. Vi è da aggiungere peraltro che, come previsto dall’art. 42 del D.L. Cura Italia, gli eventi infortunistici da COVID-19 non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico, non gravando dunque sull’aumento del premio assicurativo a carico dei datori di lavoro pubblici e privati.
Dunque, è evidente che la norma in esame non abbia né ampliato l’ambito della responsabilità penale del datore di lavoro né introdotto alcuna forma di responsabilità oggettiva datoriale per infortunio da COVID-19, come pure la stessa non ha introdotto alcuna nuova fattispecie di reato. Al riguardo, pare infatti utile rammentare come l’introduzione di una fattispecie criminosa non possa che essere realizzata mediante una previsione normativa esplicita ed inequivocabile, in base al principio, assistito da garanzie costituzionali, del nullum crimen sine previa lege. Peraltro, anche in relazione al paventato timore di una responsabilità datoriale oggettiva, è opportuno sottolineare come lo stesso non trovi fondamento, nella misura in cui la sussistenza della responsabilità penale datoriale, in materia di tutela della SSL ed inosservanza della disciplina antinfortunistica, è sempre subordinata alla celebrazione di un processo all’esito del quale si dimostri la sussistenza di almeno quattro presupposti congiuntamente necessari:
- che il lavoratore riesca a dimostrare la correlazione dell’evento lesivo con lo svolgimento dell’attività lavorativa, prova di fatto molto difficile da fornire in relazione all’infortunio da COVID-19, oltre ogni ragionevole dubbio;
- che il datore di lavoro non riesca a fornire prova di aver fatto tutto quanto necessario in termini di misure prevenzionistiche per evitare il verificarsi dell’evento lesivo;
- che sussista correlazione causale diretta – nesso di causalità – tra il comportamento omissivo del datore di lavoro e il verificarsi dell’evento lesivo;
- che l’omissione del datore di lavoro sia imputabile almeno ad una colpa dello stesso, intendendosi per colpa quell’elemento psicologico per il quale il datore di lavoro, pur prefigurandosi mentalmente che la sua omissione potesse determinare le lesioni o la morte del lavoratore, non abbia proceduto ad adottare idonee cautele idonee ad evitare il verificarsi dell’evento, ritenendolo improbabile o sottovalutandone la possibilità di accadimento.
Un’ultima riflessione deve poi essere fatta in relazione all’azione di regresso da parte dell’INAIL che, come precisato dallo stesso Istituto nella già menzionata circolare n. 22/2020, per essere esercitata nei confronti dei soggetti ritenuti civilmente responsabili è necessario che il fatto costituisca un reato perseguibile d’ufficio. Ne consegue che, in sede penale o civile, l’attivazione dell’azione di regresso non possa basarsi sul semplice riconoscimento dell’infezione da SarsCov-2.
L’Istituto, al riguardo – oltre a ricordare che l’attivazione dell’azione di regresso presuppone anche l’imputabilità a titolo, quantomeno, di colpa, della condotta causativa del danno – ha altresì opportunamente richiamato la sentenza della Corte di Cassazione a SS.UU. n. 30328 del 10 luglio 2002, nella quale è stato affermato che: “nel reato colposo omissivo improprio, quale è quello ipotizzabile nella fattispecie, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo…”.
Alla luce di quanto sopra analizzato, tanto il presunto automatico riconoscimento dell’infortunio da COVID-19 in sede indennitaria INAIL, quanto il paventato ampliamento della responsabilità penale del datore di lavoro per inosservanza delle norme antinfortunistiche, paiono prive di fondamento in punto di diritto.
Si può di conseguenza ritenere di fatto superfluo intraprendere l’iter di introduzione di un qualsivoglia “scudo penale” che difenda le imprese da queste prospettive di ampliamento di responsabilità, posto che le regole esistenti in materia, a quadro normativo vigente, sono già esaustive e che la configurabilità della responsabilità penale del datore di lavoro, in materia, è in ogni caso subordinata alla dimostrazione in giudizio degli stringenti criteri appena sopra riepilogati.
Tuttavia, non può escludersi che l’intervento del legislatore, attraverso la redazione di una norma avente un preciso intento esclusivamente chiarificatore sul perimetro della responsabilità datoriale in caso di contagio da COVID-19, possa essere di utilità, in un momento di difficoltà economica per il Paese; ciò a patto che esso non si traduca in un abbassamento dei livelli generali di sicurezza e prevenzione nei luoghi di lavoro. Tale intervento, già preannunciato dal Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, potrebbe ben tradursi in una disposizione che, ai fini della tutela contro il rischio di contagio, riconduca direttamente il corretto adempimento degli obblighi di cui all’articolo 2087 c.c. all’applicazione ed al mantenimento nel tempo delle prescrizioni e delle misure contenute nel protocollo interconfederale del 24 aprile 2020 sottoscritto tra il Governo e le parti sociali, oltre che negli altri protocolli e linee-guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 ovvero, qualora le stesse non trovino applicazione, alle ulteriori misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.