Negoziazione assistita con l’assistenza dei rispettivi avvocati nelle controversie di lavoro.

Con il DLGS 10 ottobre 2022 n.149 all’articolo 9 è estesa la negoziazione assistita anche alle controversie di lavoro.

Trova così applicazione anche nel rito del lavoro l’istituto della negoziazione assistita.

In tal modo, le parti – lavoratore e datore di lavoro – assistite dai rispettivi avvocati potranno dar luogo alla cosiddetta negoziazione assistita.

Potrà così essere escluso l’intervento del giudice del lavoro e degli organismi di conciliazione.

L’accordo che ne scaturisce è equiparato ad una conciliazione nella cosiddetta “sede protetta” e come tale, rappresenta un titolo esecutivo.

La norma (DL 132/2014 siccome modificato dal DLGS n.149/2022) è la seguente: “1. Per le controversie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, fermo restando quanto disposto dall’articolo 412-ter del medesimo codice, le parti possono ricorrere alla negoziazione assistita senza che ciò costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Ciascuna parte è assistita da almeno un avvocato e può essere anche assistita da un consulente del lavoro. All’accordo raggiunto all’esito della procedura di negoziazione assistita si applica l’articolo 2113, quarto comma, del codice civile.

L’accordo è trasmesso a cura di una delle due parti, entro dieci giorni, ad uno degli organismi di cui all’articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”.

Per poter procedere alla negoziazione è necessaria la stipula di un accordo – convenzione di negoziazione assistita – mediante il quale le parti si impegnano a cooperare in buona fede e lealtà per risolvere in via amichevole la controversia.

Se la convenzione cui si è fatto cenno lo prevede, prima di pervenire all’accordo può essere espletata un’attività istruttoria al fine non di decidere la controversia, ma di valutare attentamente i contenuti dell’accordo.

Quindi, ciascun avvocato può invitare un terzo a rendere dichiarazioni su fatti specificamente individuati e rilevanti in relazione all’oggetto della controversia, in presenza degli avvocati che assistono le altre parti.

Inoltre, di fronte ad una specifica previsione della convenzione, ciascun avvocato può invitare la controparte a rendere per iscritto dichiarazioni su fatti, specificamente individuati e rilevanti in relazione all’oggetto della controversia, ad essa sfavorevoli e favorevoli alla parte nel cui interesse sono richieste.

Fabio Petracci

Cesare Damiano: Certificare la parità di genere – Le nuove disposizioni concedono un vantaggio concorrenziale agli operatori che non basano il gioco competitivo sul risparmio praticato sul costo del lavoro, ma che valorizzano la propria responsabilità sociale oltre gli oneri di legge.

L’inclusione di genere costituisce un obiettivo trasversale in tutte le componenti del Pnrr. È pur vero, tuttavia, che una delle iniziative più sfidanti affonda le radici nella Missione 5 (componente 1, investimento 1.3) del Piano, da cui discende la nuova ‘Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026’.

Attraverso la Strategia, adottata nel luglio 2021, l’Italia si pone l’obiettivo di posizionarsi, entro il 2026, tra i 10 Paesi più virtuosi sul tema dell’uguaglianza di genere scalando la classifica dell’Indice sull’uguaglianza di genere elaborato dall’Eige (Istituto europeo per l’uguaglianza di genere). È in questo tracciato che, nel novembre 2021, la legge n. 162/2021 ha modificato il “Codice delle pari opportunità” del 2006, introducendo una serie di novità regolatorie finalizzate a rafforzare l’apparato strumentale che promuove la parità di genere sul lavoro.

Parità di genere: le novità contenute nel Codice

Le novità contenute nel nuovo Codice sono diverse, e spaziano dall’inasprimento dell’apparato sanzionatorio e dei controlli in tema di discriminazione di genere all’estensione dell’obbligo di reportistica (il cosiddetto “Rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile”) in capo alle aziende con più di 50 dipendenti.

Tra queste misure, soprattutto, spicca l’introduzione del sistema nazionale di certificazione della parità di genere, a decorrere dal 1° gennaio 2022 (nuovo art. 46-bis). Si tratta di un sistema volontario di certificazione che, da una parte, punta a premiare le imprese più virtuose sotto il profilo della gender parity e, dall’altra, incentiva l’adozione di politiche aziendali finalizzate a ridurre la disparità di genere endo-aziendale in molteplici aree. Parità di retribuzione a parità di mansioni, chance di carriera, tutela della maternità e così via. Il meccanismo di premialità prevede, per l’anno 2022, l’esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro in possesso della certificazione. La decontribuzione è pari all’1% e nel limite massimo di 50.000 euro annui per ogni azienda, fermo restando il limite di spesa di 50 milioni di euro stanziati per la misura.

In aggiunta, alle aziende certificate alla data del 31 dicembre dell’anno precedente, è riconosciuto un punteggio premiale nell’assegnazione di fondi e nella partecipazione a gare e avvisi banditi dalla pubblica amministrazione. Proprio a tal proposito, si segnala l’introiezione del sistema di certificazione della parità di genere nell’ambito del Codice dei contratti pubblici (art. 34, D.L. 30 aprile 2022 n. 36, convertito in L. n. 79/2022). Attraverso le nuove disposizioni, le imprese che possiedono la certificazione possono godere della riduzione del 30% della “garanzia provvisoria” per l’affidamento dei contratti di servizi e forniture, mentre è introdotta la possibilità di inserire nei bandi di gara, negli avvisi e negli inviti criteri premiali per gli operatori economici “certificati”.

Operatività e iter attuativo

L’operatività del sistema di certificazione è stata subordinata all’emanazione di uno o più decreti attuativi che stabilissero i parametri minimi per conseguire la certificazione “con particolare riferimento alla retribuzione corrisposta, alle opportunità di progressione in carriera e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, anche con riguardo ai lavoratori occupati di sesso femminile in stato di gravidanza”. Inoltre, l’intervento attuativo doveva chiarire le modalità di acquisizione e di monitoraggio dei dati trasmessi dal datore di lavoro, le modalità di coinvolgimento delle rappresentanze sindacali aziendali e delle consigliere e dei consiglieri di parità e, infine, le forme di pubblicità della certificazione.

Ora, orientarsi nell’iter attuativo non è particolarmente agevole. Dapprima, nell’ottobre 2021 è stato istituito un Tavolo di lavoro ad hoc e, all’esito del confronto in seno al Tavolo, l’ente di normazione tecnica ha pubblicato la Prassi di riferimento per la parità di genere, entrata in vigore il 16 marzo 2022. Si tratta della Prassi UNI/PdR 125:2022 contenente le linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere che prevede l’adozione di specifici Kpi (Key performances indicator) riguardo le politiche di parità di genere nelle organizzazioni. A seguito dell’emanazione della prassi, tra l’altro, è stato istituto un Tavolo di lavoro permanente sulla certificazione (decreto 5 aprile 2022) con il compito di elaborare approfondimenti e proposte, di svolgere attività di monitoraggio e di supportare gli organi preposti sulla valutazione dei risultati.

Sulla base delle indicazioni contenute nella prassi tecnica di riferimento, da ultimo è stato adottato il decreto 29 aprile 2022 (pubblicato in Gazzetta il 1° luglio scorso) che finalmente chiarisce i parametri per il conseguimento della certificazione e il coinvolgimento delle rappresentanze sindacali aziendali e delle consigliere e consiglieri territoriali e regionali di parità. Attraverso poche disposizioni, il decreto stabilisce che i parametri per ottenere la certificazione sulla parità di genere sono quelli contenuti nella prassi UNI/PdR 125:2022. In merito al coinvolgimento delle suddette figure preposte a controllare il rispetto dei requisiti necessari al mantenimento della certificazione, lo stesso decreto prevede l’obbligo, in capo al datore di lavoro, di fornire con cadenza annuale un’informativa aziendale sulla parità di genere.

A quel punto, i rappresentanti sindacali, le consigliere e i consiglieri che riscontrino anomalie o criticità sulla base dell’informativa e, per le imprese obbligate, del Rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile, potranno procedere con una segnalazione all’organismo di valutazione della conformità che ha rilasciato la certificazione. Tuttavia, alle imprese è concesso un termine, non superiore a 120 giorni, per la rimozione delle criticità rilevate.

La norma tecnica di riferimento

Ora, è ormai evidente che il documento di riferimento delle imprese che desiderano ottenere la certificazione è la prassi UNI/PdR 125:2022. Volendo sintetizzare i principali parametri delineati dalla norma tecnica, sono state anzitutto individuate sei aree di indicatori su cui basare la valutazione delle organizzazioni inclusive e rispettose della parità di genere:

  • cultura e strategia;
  • governance;
  • processi HR;
  • opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda;
  • equità retributiva per genere;
  • tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro.

Per ciascuna area, contraddistinta da un peso in percentuale, sono stati individuati specifici Kpi che misurano il “grado di maturità dell’organizzazione” e la sua evoluzione nel tempo. Gli indicatori sono ponderati in relazione alla dimensione dell’impresa – nel senso che per le micro e piccole imprese sono previste alcune semplificazioni nei set di indicatori – e per area di appartenenza, cioè a seconda del codice Ateco delle organizzazioni.

Come regole di massima, il raggiungimento dello score minimo di sintesi per ottenere la certificazione è fissato al 60%. Inoltre, la certificazione deve essere rinnovata ogni due anni qualora sui gap siano stati messi in atto piani di miglioramento. Non vi è spazio per passare in rassegna tutti gli indicatori di ogni area strategica. Tuttavia è importante evidenziare che la valutazione non è cristallizzata sullo status quo dell’organizzazione aziendale, pur virtuosa in partenza. Anzi, il primo indicatore della prima area (“cultura e strategia”) è costituito dalla elaborazione e implementazione di un piano strategico che favorisca e sostenga un ambiente di lavoro inclusivo.

In buona sostanza, le imprese – anche di dimensioni micro – devono dotarsi di una politica interna che favorisca il miglioramento dei comportamenti aziendali e il raggiungimento dei risultati prefissati.

ASSOCIAZIONI DATORIALI E SINDACATI A CONFRONTO AL CNEL: “IMPRESE E CAPITALE UMANO SONO UGUALI, RAGIONARE DA SQUADRA”.

Presso il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, Convegno “Associazioni datoriali e sindacati dei dipendenti: quali sinergiepromosso da FenImprese e CIU Unionquadri, confederazione presente al CNEL in rappresentanza dei quadri e delle elevate professionalità del mondo del lavoro, alla presenza del Presidente, Prof. Tiziano Treu.

Oggetto del momento di confronto la necessità, per la rappresentanza sindacale e quella datoriale, di intraprendere dei percorsi comuni a vantaggio dei lavoratori, collaborazione ormai necessaria e matura soprattutto in relazione al momento storico che impone sinergie e condivisioni piuttosto che antagonismi e contrapposizioni.

Ad aprire e moderare i lavori i Consiglieri del CNEL Gian Paolo Gualaccini e Francesco Riva, si è analizzato il delicato equilibrio tra mondo del lavoro e sua rappresentanza, non senza proposte incisive e determinate.

È necessario tornare a valorizzare il capitale umano” ha sottolineato il Presidente di FenImprese Luca Mancuso. “È indispensabile che imprese e lavoratori tornino a ragionare come famiglia. I dipendenti devono capire che non sono soltanto operai, quadri o dirigenti ma veri e propri soci dell’azienda, e le attività produttive comprendere, a loro volta, che soltanto attraverso un confronto e un coinvolgimento dei lavoratori è possibile superare la visione da semplice ‘costo’ a ‘opportunità’. Per realizzare tutto ciò si rivela necessario cambiare il mindset delle imprese, valutando le performance dei dipendenti, disegnando percorsi di carriera, dando formazione costante, ascoltando i lavoratori, coinvolgendoli nei processi decisionali e relazionali. Su questo FenImprese e CIU Unionquadri si trovano d’accordo e vogliono tornare a far ragionare imprese e sindacati come una comunità”.

Per Gabriella Àncora, Presidente CIU Unionquadri la collaborazione tra CIU Unionquadri e Feninpresa in corso in questi ultimi anni è la dimostrazione fattiva della necessità di dare alle relazioni industriali un nuovo corso, bilanciando i rispettivi interessi, in particolar modo in relazione alla figura dei Quadri e al loro contributo nell’ambito del percorso intrapreso da tutte le attività produttive verso la trasformazione digitale. Particolare accento è stato posto sul futuro della figura del DPO, di cui al momento non esiste una regolamentazione “L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha parlato di ‘sindacati in transizione’, in relazione soprattutto ai diversi fattori che l’attuale momento storico impone alle rappresentanze dei lavoratori: disoccupazione femminile e giovanile, con conseguente  invecchiamento del sindacato, la crescente attività di servizio (spesso privo di un luogo fisico di lavoro) rispetto a quelle industriali, l’innovazione tecnologica, la precarizzazione del lavoro e le sfide della digitalizzazione. Da qui la proposta di superare la dualizzazione tra grandi e piccole imprese, con una rinnovata difesa del lavoro “classico” e una contemporanea maggiore tutela del lavoro “nuovo”” ha concluso Àncora.

Avv. Flora Golini – Responsabile CIU Unionquadri in Lussemburgo – Membro dei Comites quale rappresentante nel CGIE.

 

 

 

Comunichiamo i codici di accesso “VIP” per la Conferenza di Mercoledì 18 Gennaio alle ore 19:00 sull’ “L’orientamento Universitario” con la relatrice Dottoressa Flora Golini – Responsabile  CIU Unionquadri in Lussemburgo membro dei Comites quale rappresentante nel CGIE.

Per partecipare basta alla conferenza puo’ utilizzare il seguente link:
https://us06web.zoom.us/j/82870123531?pwd=cTYxcitJTVUwdmFMb2VLWlRuNHMrUT09

Oppure può anche utilizzare, su piattaforma zoom, i seguenti codici:
Meeting ID: 828 7012 3531
Passcode: 949866

l codici d’accesso sono validi per ognuno dei destinatari e possono essere usati anche da altre persone interessate alla video Conferenza.

CASSAZIONE – La decadenza nel caso dell’azione di accertamento del rapporto di lavoro.

La sentenza n. 40652/2021 della Suprema Corte di Cassazione ha statuito che nel caso di azione di accertamento di un rapporto di lavoro alle dipendenze di un soggetto diverso dal datore di lavoro formale non è prevista alcuna decadenza fino al momento in cui il lavoratore non riceve un provvedimento scritto che nega la titolarità del rapporto.

Il caso oggetto della pronuncia è quello relativo ad alcuni dipendenti che avevano agito giudizialmente per ottenere l’accertamento di un rapporto di lavoro alle dipendenze di un soggetto diverso da quello che risultava formalmente titolare del contratto.

Le Corti di merito avevano rigettato le domande dei lavoratori, ritenendole presentate oltre i termini previsti a pena di decadenza dall’art. 32, c. 4, lett. d), l.183/2010.

La Corte di Cassazione rileva come in un’ottica di bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti, tanto nei casi di richiesta di costituzione (in cui è manifesta la volontà dell’istante di ripristino immediato e/o di stabilizzazione), quanto nei casi di richiesta di accertamento (ove l’azione dichiarativa richieda un accertamento “ora per allora”) dei rapporto di lavoro alle dipendenze di un soggetto diverso dal titolare del contratto, è sempre necessario “un atto o un provvedimento datoriale che renda operativo e certo il termine di decorrenza della decadenza”.

Ne consegue che viene evidenziata la necessità, ai fini della operatività della decadenza, di un provvedimento o di un atto da impugnare ovvero di un tipizzato fatto (scadenza del contratto a tempo determinato).

La Suprema Corte di Cassazione ha quindi enucleato il seguente principio di diritto: “La disposizione di cui alla legge. n. 183/ 2010, art. 32, co. 4, lett. d), relativa al regime di decadenza ivi previsto, non si applica alle ipotesi – in tema di richiesta di costituzione o di accertamento di un rapporto di lavoro, ormai risolto, in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto – nelle quali manchi un provvedimento in forma scritta o un atto equipollente che neghi la titolarità del rapporto stesso”.

 

La tutela dei lavoratori negli appalti di logistica.

Il contratto di appalto è molto usato dalle imprese, specialmente nella forma dell’appalto di servizi. Nell’ordinamento italiano si è scelto di tutelare i crediti – compresi TFR, contributi previdenziali e premi assicurativi – dei lavoratori impiegati nell’appalto attraverso il meccanismo della responsabilità solidale tra appaltante e appaltatore.

In effetti, l’art. 29, comma 2 del d.lgs. 276/2003 stabilisce proprio come “in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi”.

Nel corso degli anni si sono sempre più sviluppati, assumendo particolare importanza, gli appalti nel settore della logistica.

Preso atto del fenomeno, il legislatore è intervenuto con una specifica norma, l’art. 1677 bis c.c., in base al quale: “Se l’appalto ha per oggetto, congiuntamente, la prestazione di due o più servizi di logistica relativi alle attività di ricezione, trasformazione, deposito, custodia, spedizione, trasferimento e distribuzione di beni di un altro soggetto, alle attività di trasferimento di cose da un luogo a un altro si applicano le norme relative al contratto di trasporto, in quanto compatibili”.

Nella pratica era tuttavia sorto il dubbio se detta responsabilità solidale potesse operare con riferimento alle prestazioni lavorative relative alle attività di semplice trasporto di cose, in quanto al contratto di trasporto non trova applicazione la norma sulla responsabilità solidale negli appalti.

Il Ministero del Lavoro è quindi intervenuto con un interpello, il n.1/2022, chiarendo che anche nel caso di appalti di più servizi di logistica come descritti nell’art. 1677-bis c.c. trova applicazione la disciplina della responsabilità solidale prevista dall’art. 29 del d.lgs. 276/2003.

Tale conclusione deriva dalla considerazione secondo la quale la logistica rappresenta una peculiare ipotesi di contratto di appalto di servizi e perciò non risulta possibile escludere il regime di solidarietà sia perché l’esclusione sarebbe incoerente con la disciplina generale dell’appalto, sia perché introdurrebbe una irragionevole riduzione di tutela per il lavoratore impegnato nelle sole attività di trasferimento di cose dedotte in un contratto di appalto.

Sul punto va ricordato come era già intervenuta la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 254/2017, che aveva affermato la necessità di un’interpretazione estensiva e costituzionalmente orientata dell’art. 29, comma 2, d.lgs. 276/2003, con la finalità di garantire ai lavoratori una tutela adeguata, evitando che i meccanismi di decentramento produttivo e di dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione vadano a danno dei lavoratori.

 

CASSAZIONE – Non è sempre nullo il patto di non concorrenza con corrispettivo variabile.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 33424/2022, interviene in merito alla previsione di un patto di non concorrenza con un importo variabile a seconda della durata del rapporto di lavoro.

Nel dettaglio, l’importo era pari a € 10.000 all’anno per 3 anni, a fronte di un impegno di non concorrenza per 20 mesi dalla cessazione del rapporto; in caso di cessazione del rapporto di lavoro prima della scadenza del triennio, al dipendente non sarebbe spettato l’intero importo di € 30.000, bensì un importo collegato alla durata del rapporto di lavoro.

La Cassazione ricorda come il corrispettivo stabilito con il patto di non concorrenza, essendo diverso e distinto dalla retribuzione, deve possedere soltanto i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c. e, quindi, deve essere “determinato o determinabile”.

La variabilità del corrispettivo rispetto alla durata del rapporto di lavoro non significa che esso non sia determinabile in base a parametri oggettivi: devono quindi essere valutate distintamente la questione della nullità per mancanza del requisito di determinatezza o determinabilità del corrispettivo pattuito tra le parti e, poi, la verifica che il compenso, come determinato o determinabile, non sia simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue possibilità di guadagno.

 

CASSAZIONE – Superamento del comporto e discriminatorietà del licenziamento.

Con la pronuncia n. 2414/2022 la Corte di Cassazione precisa come sia comunque possibile ravvisare una finalità discriminatoria anche nel caso di un licenziamento basato su quello che a tutti gli effetti può essere considerato un motivo legittimo (come l’effettivo e non contestato superamento del periodo di comporto).

Nel dettaglio, si tratta di una pronuncia resa in un giudizio nel quale il lavoratore aveva dedotto l’illegittimità del licenziamento, formalmente intimato per superamento del periodo di comporto, argomentando dal fatto che la malattia era causalmente da collegare alla illegittima condotta datoriale, che il recesso era stato determinato da un intento ritorsivo e che era discriminatorio in quanto collegato all’attività sindacale svolta.

Secondo consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, la prova della unicità e determinatezza del motivo non rileva nel caso di licenziamento discriminatorio, che ben può accompagnarsi ad altro motivo legittimo ed essere comunque nullo (Cass. n. 28453 del 2018, Cass. n. 6575 del 2016).

Devono quindi essere tenuti il profilo in cui si assuma un motivo ritorsivo e quello in cui si denunzi il carattere discriminatorio del licenziamento, in relazione al quale l’esistenza di un motivo legittimo alla base del recesso datoriale non esclude la nullità del provvedimento ove venga accertata la finalità discriminatoria dello stesso.

Invero, solo nel caso di allegazione da parte del lavoratore del carattere ritorsivo del licenziamento e quindi di una domanda di accertamento della nullità del provvedimento datoriale per motivo illecito ai sensi dell’articolo 1345 c.c., occorre che l’intento ritorsivo del datore di lavoro, la cui prova è a carico del lavoratore, sia determinante, cioè tale costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale.