Articolo dott.ssa Laura Angeletti componente del Centro Studi Corrado Rossitto di CIU Unionquadri.
Entra in vigore la legge 162/2021 che amplia il tema delle pari opportunità, con alcune importanti novità quali il divieto di discriminazione anche indiretta in fase di assunzione, l’obbligo del rapporto per la Consigliera di Parità per le aziende oltre i 50 dipendenti e meccanismi premiali per le aziende munite di certificazione di parità di genere.
Il decreto, strutturato in libri, titoli e capi, affronta il tema delle pari opportunità tra i generi da diverse angolazioni: il libro primo è dedicato alla gestione politica della promozione delle pari opportunità e istituisce gli organi rilevanti (comitato nazionale, consiglieri di parità, comitato per l’imprenditoria femminile). Il libro secondo riguarda le pari opportunità “nei rapporti etico sociali”, principalmente all’interno della famiglia, mentre il libro terzo colloca il tema nell’ambito “rapporti economici”, ed è quello che affronta in maniera specifica le discriminazioni sui luoghi di lavoro, con riferimenti specifici alla maternità e alla paternità, e all’esercizio dell’attività di impresa. Infine, il libro quarto è dedicato alle pari opportunità nei rapporti civili e politici.
Il libro terzo è quello maggiormente interessato dall’intervento di riforma, in quanto viene modificato fin dalla prima norma, l’articolo 25. Questa disposizione, rubricata “discriminazione diretta e indiretta”, costituisce il fulcro del diritto antidiscriminatorio: contiene la nozione stessa di discriminazione e definisce la differenza tra discriminazione diretta e indiretta, sulla base di definizioni che oramai sono divenute “tradizionali” all’interno del nostro ordinamento[1].
Si definisce discriminazione diretta “qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando (le candidate e i candidati, in fase di selezione del personale,)[2] le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”.
La legislazione comunitaria, in maniera non dissimile, definisce la discriminazione diretta come la situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente, in base al sesso, di quanto sia stata o sarebbe trattata un’altra persona in una situazione analoga[3].
Da queste definizioni emerge che per discriminazione diretta si intende ogni condotta con la quale la persona, in ragione del genere, viene fatta oggetto di un trattamento che risulta sfavorevole se confrontato con quello riservato alle persone appartenenti all’altro genere.
La discriminazione indiretta riguarda invece i casi in cui un trattamento uniforme e di per sé neutro produce conseguenze diverse, e pregiudizievoli, su gruppi di persone accomunate dal possesso di un tratto o di un carattere che li differenzia da altri gruppi o dal resto della popolazione. Chiaramente, non tutti i tratti o i caratteri sono passibili di essere ricondotti ad un trattamento discriminatorio, ma soltanto quelli che vengono identificati per il loro possibile impatto sociale e selezionati ex ante dal legislatore come meritevoli di tutela.
In particolare, ai sensi del comma 2 dell’articolo 25, “si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, (compresi quelli di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro,)[4] apparentemente neutri mettono o possono mettere (i candidati in fase di selezione e) i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché’ l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.”
In questo caso, quindi, il trattamento discriminatorio si realizza attraverso l’adozione di un criterio di per sé legittimo, ma tale da a provocare un impatto discriminatorio tra i gruppi di persone considerate, sfavorendone uno rispetto ad un altro. Ad esempio, la giurisprudenza ha ravvisato l’esistenza di discriminazioni indirette nei bandi di concorso che prevedano, per i concorrenti, un’altezza minima al di sopra di quella che statisticamente è la media femminile, ma entro quella maschile[5] o, anche, nelle maggiorazioni retributive connesse alla disponibilità degli interessati ad orari variabili che tendenzialmente vedono penalizzate le donne[6].
L’individuazione di una discriminazione indiretta richiede una delicata attività ermeneutica da parte del Giudice, in quanto comporta un’approfondita valutazione dell’atto discriminatorio nel contesto di riferimento, al fine di verificare se un comportamento che appaia, ad un primo esame, legittimo, nasconda, in realtà, una forma di ingiustificata differenziazione.
Proprio per questo, si ritiene rilevante l’intervento di modifica compiuto dalla legge 162 che ha introdotto nella formulazione originaria della norma un riferimento esplicito ai lavoratori in fase di selezione, che consente di instaurare un collegamento diretto con la condotta consistente nel domandare alle lavoratrici quale sia la loro situazione, attuale o programmata, rispetto alla propria vita privata e familiare.
Questa condotta è già oggetto di divieto dell’articolo 27 del testo unico, che vieta “qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, nonché’ la promozione, […] qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale […]” e chiarisce ulteriormente che tale discriminazione è vietata anche se attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, nonché’ di maternità o paternità, anche adottive”. L’operatività di tale divieto viene estesa, dal terzo comma della norma “alle iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento, aggiornamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini formativi e di orientamento […], nonché’ all’affiliazione e all’attività in un’organizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, e alle prestazioni erogate da tali organizzazioni.” Con l’unica deroga, in ottica di tutela della salute, relativa a “mansioni di lavoro particolarmente pesanti individuate attraverso la contrattazione collettiva.”
Sebbene questa condotta sia oggetto di una tipizzazione e di un divieto normativo, il nuovo riferimento alle fasi di selezione e reclutamento non risulta affatto superflua o ridondante: da un lato, infatti, essa può ricomprendere una casistica più ampia del solo compimento di siffatte indagini, e dall’altro, il fatto stesso di collocare il tema all’interno di una norma fondamentale del diritto antidiscriminatorio vi attribuisce un rilievo inedito che potrebbe portare a interessanti sviluppi giurisprudenziali.
Un altro significativo intervento apportato all’articolo 25 consiste nell’introduzione del comma 2 – bis che amplia e dettaglia la fattispecie discriminatoria: si afferma, infatti, che costituisce discriminazione “ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; c) limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera”.
La rilevanza della norma si osserva sia nell’ampliamento delle possibili cause di discriminazione, dal momento che al genere del lavoratore vengono aggiunte le esigenze di cura, a prescindere dal tipo legame (biologico o no) da cui derivano, sia negli effetti che dalla discriminazione possono scaturire, impattando aspetti diversa della vita di un lavoratore. In particolare, il riferimento alla limitazione della partecipazione alle scelte aziendali e dell’accesso ai meccanismi di progressione di carriera, denotano l’attenzione del legislatore al fatto che siano garantiti a tutti i lavoratori, a prescindere dal genere, le stesse opportunità di crescita professionale e di accesso a posizioni manageriali, come sono quelle dei quadri.
Un altro punto significativamente innovato, all’interno del libro terzo del decreto, è l’articolo 46, novellato, e fatto seguire da un nuovo articolo 46 bis.
La disposizione modificata ha ad oggetto il rapporto sulla situazione del personale che deve essere redatto dalle aziende e inviato alla consigliera e al consigliere regionale di parità, al consigliere nazionale di parità, al ministero del lavoro e al dipartimento delle pari opportunità della presidenza del consiglio dei ministri. La novella legislativa modifica (abbassandola da 100 a 50 dipendenti) la soglia dimensionale a partire dalla quale le aziende sono tenute a redigere il rapporto e introduce la possibilità di redigerlo su base volontaria per le realtà al di sotto dei 50 dipendenti.
Il decreto, inoltre, introduce un’elencazione abbastanza puntuale dei contenuti da inserire nel rapporto, tra i quali figurano, oltre al numero dei lavoratori occupati per ciascun genere e delle donne in stato di gravidanza “le differenze tra le retribuzioni iniziali dei lavoratori di ciascun sesso, l’inquadramento contrattuale e la funzione svolta da ciascun lavoratore occupato, anche con riferimento alla distribuzione fra i lavoratori dei contratti a tempo pieno e a tempo parziale, nonché l’importo della retribuzione complessiva”, la quale comprende le componenti accessorie, tutte le indennità e ogni altro emolumento riconosciuto ai lavoratori.
Inoltre, il rapporto dovrà contenere informazioni e dati in merito ai processi di selezione, alle procedure utilizzate per l’accesso alla qualificazione professionale e alla formazione manageriale, agli strumenti e sulle misure resi disponibili per promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, alla presenza di politiche aziendali a garanzia di un ambiente di lavoro inclusivo e rispettoso e ai criteri adottati per le progressioni di carriera.
Anche questa previsione contiene elementi interessanti rispetto allo sviluppo della carriera e alla crescita professionale di tutti i lavoratori; in particolare è da segnalare l’accesso alla formazione manageriale e alla indicazione dei criteri adottati per le progressioni di carriera. È difficile, in realtà che dalla redazione di questo rapporto, che costituisce un’autodichiarazione, emerga la prassi di applicare criteri discriminatori per la progressione di carriera dei lavoratori; tuttavia, il fatto che il legislatore dedichi al tema una rilevanza a sé stante denota un interesse e un’attenzione che sono indubbiamente rilevanti. Infine, il riferimento alle misure per promuovere la conciliazione di tempi di vita e tempi di lavoro risulta particolarmente incisiva rispetto al tema della crescita professionale delle lavoratrici, che spesso, ancora, viene fortemente ostacolata e rallentata dalla distribuzione iniqua del lavoro di cura all’interno delle famiglie.
Ancora in tema di promozione della parità di genere nei rapporti di lavoro, la legge di riforma introduce l’articolo 46 bis, che istituisce la certificazione della parità di genere, per attestare l’adozione, sui luoghi di lavoro, di politiche e misure per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale e di mansioni e per la tutela della maternità.
I parametri minimi per il conseguimento della certificazione della parità di genere verranno determinati dal Governo con decreto, con particolare riferimento alla retribuzione corrisposta, alle opportunità di progressione in carriera e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, anche in relazione alle lavoratrici in stato di gravidanza. Questa previsione, seppur necessaria per l’implementazione della certificazione, non risulta di semplice applicazione, vista la difficoltà di determinare e definire in maniera univoca lo stato di attuazione di questo tipo di misure.
A supporto della effettiva implementazione di questa previsione normativa, viene previsto per l’anno 2022 (articolo 5 della legge di riforma), un meccanismo premiale per le aziende che se ne dotino, consistente in un esonero dal versamento dei contribuiti previdenziali a carico del datore di lavoro. L’esonero è determinato in misura non superiore all’1% del montante contributivo dell’azienda, sempre entro il limite massimo dei 50000 euro annui per azienda. A titolo di ulteriore incentivo per le aziende particolarmente virtuose che siano in possesso della certificazione entro la fine del 2021, viene riconosciuto un punteggio premiale per la valutazione, da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, di proposte progettuali ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti.
La legge di riforma prevede, infine, che anche nelle società costituite in Italia controllate da pubbliche amministrazioni, non quotate in mercati regolamentati, si applichi il riparto dei componenti del Consiglio di Amministrazione sulla base del genere, garantendo che il genere meno rappresentato ottenga almeno due quinti degli amministratori eletti.
Le novità introdotte dalla legge di riforma, qui sinteticamente tracciate, contengono aspetti di evidente rilevanza.
In particolare, come richiamato in precedenza, l’ampliamento della nozione di discriminazione diretta e indiretta è un passo significativo, data l’importanza della norma; più nello specifico, si rileva l’attenzione prestata alla garanzia della parità rispetto alle opportunità di crescita di carriera e al conseguimento di ruoli strategici e rilevanti all’interno del contesto lavorativo, che possiamo identificare con la qualifica del quadro.
La disparità nelle concrete opportunità di accesso a queste posizioni, a sfavore delle lavoratrici, si deve ancora oggi alla persistenza di stereotipi sociali e culturali che inevitabilmente si riverberano nelle dinamiche in essere sui luoghi di lavoro, specchio della società di cui fanno parte. In particolare, la cultura manageriale, al netto di lodevoli eccezioni, risulta ancora poco aperta rispetto ad una piena partecipazione femminile, come confermato da studi e ricerche[7].
Oltre a ciò, il permanere di questo tipo di disparità è dovuto ad una iniqua distribuzione tra i generi del carico del lavoro di cura, che spesso grava in misura sproporzionata sulle lavoratrici ostacolando l’effettiva possibilità di conseguire posizioni apicali o ruoli manageriali.
Pertanto, fermo restando il plauso per la chiara affermazione normativa contenuta in questo intervento di riforma, si ritiene che questa debba essere accompagnata dall’implementazione di misure specifiche. Senza pretesa di esaustività, potrebbero essere utili allo scopo interventi di formazione strutturali per una innovazione della cultura manageriale rispetto alle questione di genere, insieme ad un sistema di welfare che sollevi effettivamente le lavoratrici dall’assolvimento di determinati compiti che, in certa misura, ostacolano il raggiungimento di performance professionali di alto livello.
In ogni caso, e conclusivamente, data la capacità del diritto di introdurre idee e pensieri, oltre che regole e divieti, nella cultura di una nazione, un intervento di questo tipo rappresenta un passo significativo, rispetto al quale è possibile auspicare la realizzazione di miglioramenti effettivi per la società complessivamente considerata.
Dottoressa Laura Angeletti.PHD
[1] F. CARINCI, Diritto del lavoro, II, Il rapporto di lavoro subordinato, Utet, 2012, 211
[2] Inciso introdotto dalla legge 162/2021
[3] Direttiva n. 2006/54
[4] Inciso introdotto dalla legge 162/2021
[5] Cass. 13 novembre 2007, n. 23562
[6] Corte Giust. UE, 17 ottobre 1989, c.109/88
[7] A. FEDI, L. COLOMBO, L. BERTOLA, C. ROLLERO, Donne e carriera tra stereotipi di genere e conciliazione lavoro-famiglia. Un’analisi psico-sociale, in Sociologia del lavoro, n. 148/2017