19 marzo 2025 – DPO: RUOLO E RICONOSCIMENTO NORMATIVO. VERSO UNA PROPOSTA DI LEGGE INNOVATIVA.

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Data Protection Officer: una regolamentazione per tutelarne la professionalità e la formazione specifica.

In un mondo ove l’importanza dei dati personali diventa sempre più importante, si consolida la necessità della loro protezione a tutela della vita personale e sociale di ogni cittadino.
Il DPO (Data Protection Officer) è il soggetto incaricato di verificare e garantire il rispetto della normativa in materia di protezione dei dati per-sonali, con riferimento al Regolamento UE 2016/679 (GDPR) e alle disposizioni nazionali vigenti.
La sua funzione può essere svolta in due modalità: come DPO interno o come DPO esterno.
Il DPO interno è un dipendente dell’organizzazione (pubblica o privata) che, per poter espletare adeguatamente le proprie mansioni, deve disporre di una solida formazione in ambito giuridico e tecnico-informatico, così da padroneggiare i principi del GDPR, le norme nazionali, gli aspetti di sicurezza dei sistemi e la gestione del rischio.
Questo professionista, pur operando all’interno della struttura gerarchica, deve godere di autonomia e indipendenza, potendo accedere alle informazioni e ai mezzi necessari senza subire ingerenze che ne condizionino l’attività. Il DPO interno risponde della supervisione dell’osservanza delle norme sulla privacy, fornendo consulenza in materia di valutazioni d’impatto (DPIA), redigendo report e fungendo da punto di contatto con l’Autorità Garante; potrebbe incorrere in responsabilità sia disciplinari sia, in casi estremi, pecuniarie o penali qualora dovessero ravvisarsi colpa grave o dolo.

Sul piano contrattuale, il DPO interno può essere inquadrato come dirigente o quadro, a seconda della complessità delle sue funzioni, e l’autonomia del ruolo dovrebbe essere protetta da clausole specifiche.
Il DPO esterno, invece, svolge le stesse funzioni del DPO interno ma opera come consulente esterno, singolo professionista o società specializzata, incaricato tramite un contratto di servizio. Anch’egli deve possedere competenze specialistiche e mantenere una posizione di indipendenza, godendo di un adeguato accesso alle informazioni utili per valutare i trattamenti e rilevare eventuali violazioni. Il DPO esterno risponde contrattualmente dell’operato svolto, fermo restando che l’obbligo di conformità resta in capo al titolare o al responsabile del trattamento.
Fatte tali premesse, considerata l’importanza del ruolo rivestito da queste figure, non si può non rilevare come nel nostro ordinamento, oggi, man-chino tutele specifiche di inquadramento giuridico, giuslavoristico, economico nei confronti dei soggetti addetti alla protezione dei dati.
Quanto al DPO interno, oltre a doversi prevedere un inquadramento giuridico quale dipendente che svolge specifiche mansioni, anche lo stipendio dovrebbe essere commisurato al livello di rischio e alle competenze richieste, riconoscendone il ruolo cruciale in azienda e prevedendo forme di aggiornamento continuo che ne accrescano la professionalità.
Allo stesso modo manca un inquadramento del D.P.O. esterno quale libero professionista: le tariffe di questo soggetto potrebbero essere stabilite sulla base di parametri quali la complessità dell’incarico, il volume di dati trattati, il numero dei dipendenti dell’azienda e il settore operativo; sarebbe auspicabile individuare range tariffari di riferimento per garantire trasparenza e concorrenza leale.
Una proposta di legge che disciplini la figura del DPO, sia interno sia esterno, dovrebbe prevedere requisiti minimi di nomina, obblighi di formazione continua, definizione chiara delle responsabilità e un adeguato quadro sanzionatorio, nonché la possibilità di istituire un albo, o un registro, al quale accedere in base a requisiti di esperienza e certificazioni specifiche, favorendo così il riconoscimento professionale e la trasparenza del mercato. L’obiettivo di tale normativa sarebbe quello di creare regole unitarie in grado di valorizzare il ruolo del DPO, di assicurare la sua indi-pendenza e di orientare correttamente le organizzazioni verso la piena compliance in materia di privacy e protezione dei dati.
In tal senso, la legge potrebbe anche prevedere specifiche forme di tutela volte a evitare conflitti di interesse.

ADSPAMAO (Autorità Portuale Adriatico Orientale – Porti di Trieste e Monfalcone).

Sottoscritto accordo interpretativo a favore dei dipendenti portuali appartenenti al settore ferroviario.

In data 14 febbraio 2025 presso l’ADSPAMAO alla presenza del Commissario Ing. Torbianelli, e del Segretario Generale dottor Antonio Gurrieri: il Vice Presidente della CIU Unionquadri Avv. Fabio Petracci, gli iscritti a CIU Unionquadri e la loro coordinatrice Dott.ssa Toscano, presenti anche i rappresentanti di CGIL – CISL e UIL, hanno sottoscritto un accordo interpretativo atto a contenere talune disparità di trattamento a favore dei dipendenti portuali appartenenti al settore ferroviario.

Il Gruppo CIU UNIONQUADRI ha avuto pieno riconoscimento sulla sua funzione e rappresentatività.

L’interesse dei quadri ad un sistema di coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle aziende.

Qualche novità nella legge di bilancio 2025.

L’articolo 1, comma 457 della legge di bilancio per il 2025 stanzia 70 milioni di euro per il 2025 e 7 milioni per il 2026 per la costituzione di un fondo per il finanziamento della partecipazione dei lavoratori al capitale alla gestione ed ai risultati di impresa.

Lo stanziamento viene incontro al progetto di legge già presentato dalla CISL nonché alle osservazioni formulate dal sindacato Unionquadri nel corso dell’audizione in tema di legge di bilancio tenutasi l’11 dicembre 2024.

Testualmente riportava il documento di Unionquadri presentato all’incontro con il Governo:

“In merito al coinvolgimento dei lavoratori nella gestione aziendale, ricordiamo come l’articolo 45 della Costituzione stabilisca il principio della partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale.

Ricordiamo come l’articolo 4 della legge 92/2012 conteneva una delega per il governo a realizzare un tanto. La delega in realtà decadde per il mancato intervento del Governo.”

L’interesse sindacale per tale tema proviene in primo luogo da quelle parti sindacali che non intendono ricorrere a mere strategie di contrapposizione, favorendo anche momenti di collaborazione.

Per quanto riguarda Unionquadri, interesse di è anche dato dalla particolare collocazione professionale della categoria spesso vicina e quindi più sensibile alle vicende aziendali e spesso in grado di supportarne la gestione.

Non va peraltro dimenticato come nel nostro ordinamento l’articolo 46 della Costituzione riporti testualmente “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.

Il principio non è mai stato attuato.

Non va dimenticato come in diversi periodi di crisi economica, si sia tornato a riproporre il tema per promuovere la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese senza però ottenere risultati concreti.

Il principio della Cogestione.

Per affrontare in maniera anche sommaria il tema è innanzitutto necessario chiarire i termini con i quali vengono individuate diverse forme di partecipazione dei lavoratori alle vicende aziendali.

In primo luogo, ricordiamo la cosiddetta partecipazione agli utili (Gains Sharing) che consiste nella distribuzione degli utili ai lavoratori in base ad una quota individuale di partecipazione.

Questo istituto, a differenza di quello che definiremo Cogestione non prevede normalmente una partecipazione organizzata alla direzione dell’impresa.

Diverso, anche perché sviluppato in un contesto politico molto diverso da quello attuale è il concetto di autogestione delle aziende proposto nel dopoguerra nell’allora Jugoslavia da Milovan Djilas Edvard Kardelj e Boris Kidric e fatta propria dal governo di quel paese.

Il sistema in quest’ultimo caso, non presupponeva una reale democratizzazione del sistema politico ed economico nel persistere di un sistema a partito unico che ignorava la libertà economica e d’impresa e dunque, non pare rapportabile alle attuali esigenze.

Attualmente ed in sintesi, si possono individuare almeno quattro differenti tipologie di partecipazione dei lavoratori all’azienda:

  • quella di tipo “organizzativo/gestionale”, da intendersi come presenza di una rappresentanza dei lavoratori all’interno degli organi di controllo e decisionali dell’azienda (es. presenza di un rappresentante indicato o eletto dai lavoratori all’interno del Consiglio di Amministrazione);
  • quella di tipo “informativo/consultivo”, che può essere considerata come il diritto dei lavoratori (o meglio, dei loro rappresentanti) alla conoscenza dei piani aziendali passati, presenti e futuri, anche come condizione vincolante rispetto alle decisioni da assumere, con altresì possibilità di elaborare suggerimenti e controproposte;
  • quella di tipo “economico”, che mira a far partecipare i lavoratori meritevoli dei risultati e del benessere dell’azienda, promuovendo una parziale redistribuzione degli utili aziendali sulla base delle prestazioni effettivamente svolte dagli stessi lavoratori, rendendoli partecipi del successo dell’azienda;
  • quella di tipo “finanziario”, con la possibilità di accedere ad un azionariato diretto dei dipendenti delle aziende per cui lavorano, in modo da indirizzarle anche verso un assetto proprietario più condiviso, con forte responsabilizzazione e creazione di spirito d’appartenenza in capo ai singoli lavoratori.

La prima, di cui parleremo, da intendersi quale cogestione, è la forma più attiva e significativa di partecipazione dei lavoratori all’azienda.

Il modello tedesco.

Il sistema di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese trova le proprie origini nelle economie occidentali e principalmente in Germania.

Esso fonda le proprie radici nella Repubblica di Weimar (1919 – 1933) dove si cercò di realizzare l’eguaglianza capitale – lavoro sulla base di un patto sociale.

Era così riconosciuto ai lavoratori un ruolo centrale nell’ambito dei processi economici imprenditoriali mediante la possibilità di istituire “una rappresentanza legale nei consigli operai, nei consigli di distretto, nonché nel consiglio operaio nazionale.”

Su tale base, si instaurava un sistema a doppio canale di cui uno rappresentativo, sindacale e rivendicativo e l’altro partecipativo e gestionale soprattutto nelle grandi imprese definito “Mitbestimmung”.

Il sistema destinato a cadere con l’avvento del Nazionalsocialismo e con il secondo conflitto mondiale, riapparve e si stabilizzò alla fine della guerra attraverso l’approvazione di una serie di leggi federali.

Si evolvevano ed in parte confluivano parallelamente in tal modo il diritto societario, il diritto d’impresa e quello sindacale e del lavoro.

In tal modo tramite un doppio canale, i lavoratori partecipano alle decisioni della società attraverso due organi: il c.d. Consiglio di Fabbrica ed il c.d. Consiglio di Sorveglianza.

In particolare, il modello tedesco, noto come Mitbestimmung, è una vera e propria parte caratterizzante del sistema di relazioni industriali del paese.

Mitbestimmung può essere tradotto come “codeterminazione” e si riferisce ad una partecipazione paritaria di dipendenti, azionisti e dirigenti alla gestione della politica aziendale ed alle conseguenti decisioni.

In effetti, il modello tedesco prevede che l’economia e le strutture produttive lungi dal costituire esclusivamente un luogo di scontro di interessi configgenti tra capitale e lavoro, dessero invece vita ad una vera e propria “Gemeinschaft”, una “comunità” avente il fine comune di garantire benessere e prosperità per i suoi componenti.

La partecipazione dei lavoratori in Germania si compone di due livelli:

  • la “betriebliche Mitbestimmung”, partecipazione a livello di unità produttiva, che in Italia si potrebbe tradurre o intendere come “partecipazione o cogestione aziendale”;
  • la “unternehmerische Mitbestimmung”, partecipazione a livello di organi societari d’impresa, che indica la parte gestionale che è adibita all’impiego delle risorse prodotte dalla parte produttiva, traducibile come “partecipazione o cogestione societaria”.

A sottolineare il valore e l’importanza della partecipazione dei lavoratori, lo stesso art. 9 del Grund Gesetz, la Carta costituzionale varata nel 1949, dispone l’ordinamento e la pacificazione del mondo del lavoro mettendo sullo stesso piano sia la contrapposizione degli interessi sia la volontà comune di collaborazione.

Per tale motivo, le società in Germania sono soggette alla Mitbestimmung (co-determinazione) se impiegano più di 500 dipendenti.

Come già accennato i lavoratori partecipano alle decisioni della società attraverso due organi: il c.d. Consiglio di Fabbrica ed il c.d. Consiglio di Sorveglianza.

Se il primo rappresenta i lavoratori nelle singole sedi aziendali ed è formato interamente da dipendenti, il secondo è invece un organo aziendale che fa capo alla sede centrale, composto per metà dai rappresentanti dei lavoratori e per metà dagli azionisti.

Il modello Volkswagen.

Il più noto modello di partecipazione dei lavoratori all’impresa è quello del Gruppo Volkswagen.

Uno dei punti di forza del modello Volkswagen è sicuramente l’elevato grado di percentuale di lavoratori iscritti al sindacato IG METALL, che rappresenta buona parte dei dipendenti.

Il modello di relazioni industriali del Gruppo Volkswagen è improntato sulla Carta dei diritti dei lavoratori che la multinazionale tedesca ha sottoscritto a livello globale e che prevede forme intense di coinvolgimento partecipativo in tutte le aziende che fanno capo al gruppo, anche nei paesi diversi dalla Germania.

Detta Carta definisce i diritti d’informazione e di partecipazione e si pone come obiettivo quello di instaurare un rapporto di reciproca fiducia e rispetto tra le parti.

Tra i molti principi contenuti nella Carta, che richiama nei contenuti e nei principi gran parte delle Convenzioni OIL stipulate, è interessante leggere come il Gruppo Volkswagen riconosca espressamente il diritto di contrattazione collettiva e che di conseguenza il Gruppo Volkswagen e i sindacati o le rappresentanze dei lavoratori conducano insieme un dialogo sociale, di cui le contrattazioni collettive rappresentano una particolare forma.

Il sistema tedesco di cogestione delle aziende ha interessato la Comunità Europea.

La Cogestione nelle politiche comunitarie.

Le istituzioni europee nel corso degli anni 70 pensarono di poter agevolmente introdurre nei singoli stati il modello partecipativo tedesco, ma ben presto si videro costrette a compiere dei passi indietro anche a causa della profonda diversità delle relazioni sindacali nei diversi stati europei.

In ogni caso, le istituzioni comunitarie continuavano nell’obiettivo del coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese, cercando di avviare un processo volto ad uniformare le discipline dei singoli stati dal punto di vista del diritto societario e delle relazioni industriali mediante numerose direttive volte perlomeno ad agevolare l’introduzione del modello partecipativo presente in Germania.

Si arrivò però soltanto ad una serie di direttive volta ad introdurre a livello comunitario obblighi di informazione e consultazione in materia di relazioni industriali finalizzate a favorire la partecipazione del personale alla gestione delle imprese.

Il processo si protrasse sino alle direttive relative alla Società Europea ed ai Comitati Aziendali Europei che consolidarono dei principi minimi di informazione e partecipazione nelle aziende nazionali aventi rilevanza europea.

La Cogestione nell’ordinamento italiano.

Per quanto riguarda invece l’Italia, nel tempo vi sono stati forti resistenze alla diffusione delle forme partecipative e pertanto l’art. 46 della Carta Costituzionale deve considerarsi come una norma rimasta sostanzialmente inapplicata.

Il codice civile all’articolo 2349 prevede l’ipotesi di assegnazione degli utili ai prestatori di lavoro delle società, anche mediante l’emissione di speciali categorie di azioni.

Lo stesso articolo prevede inoltre la possibile attribuzione ai dipendenti di diritti patrimoniali ed amministrativi con esclusione del voto nell’assemblea generale riservato agli azionisti.

In particolare, deve essere ricordato il tentativo operato dalla c.d. “Riforma Fornero”, legge n. 92/2012, la quale aveva delegato il governo ad adottare uno o più decreti finalizzati a favorire le forme di coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa, attivate attraverso la stipulazione di un contratto collettivo aziendale, nel rispetto di principi e criteri direttivi previsti dalla legge (art. 4 c. 62 legge n. 92/2012).

Tuttavia, anche tale intervento non ha trovato concreta e capillare attuazione.

A livello legislativo, il DLGS 11/2017 che tratta delle Imprese Sociali, il coinvolgimento dei lavoratori è indicato all’articolo 11 come elemento fondamentale e necessario.

Interessante nel dopoguerra ed anni successivi (1945 – 1971), il cosiddetto modello Olivetti, azienda nella quale era costituito un Consiglio di Gestione coinvolto nei processi industriali e di organizzazione del lavoro in un’azienda tanto radicata sul territorio, quanto proiettata sui mercati internazionali.

Conclusioni.

Oggi, anche grazie alle nuove sfide della digitalizzazione ed i recenti sviluppi dell’economia, con un passaggio a quella che è stata definita l’era della “condivisione” (sharing economy), potrebbero essere state gettate le basi per la revisione del modello conflittuale su cui, storicamente, si sono rette le relazioni industriali e dunque vi sarebbero concrete possibilità di un recupero dello strumento della partecipazione dei lavoratori all’impresa.

In effetti, con l’avvento della c.d. quarta rivoluzione industriale, uno degli effetti più rilevanti è stato quello di considerare non più la prestazione lavorativa nella sua mera esecuzione materiale, quindi come mera collaborazione passiva, strettamente legata alle mansioni assegnate al lavoratore bensì la necessità di una vera e propria partecipazione attiva da parte dei lavoratori nella generazione dei valori aziendali.

In effetti, il modello storico delle relazioni industriali è principalmente basato sulla forte asimmetria tra potere direttivo e dovere di collaborazione, fondato sulla prerogativa dell’imprenditore di dirigere l’azienda in coerenza al principio di libertà di iniziativa economica privata, considerando i rischi assunti esclusivamente a carico dell’impresa stessa.

Oggi, la possibilità di partecipazione dei lavoratori alle vicende d’impresa potrebbe da un lato attenuare gli effetti del disequilibrio in termini di condizioni di lavoro e, dall’altro, essere ulteriore strumento di eventuale modifica dell’esercizio del potere direttivo in una chiave maggiormente collaborativa, tenuto dovuto conto altresì dell’evoluzione ed attenuazione del concetto di subordinazione registratosi negli ultimi anni.

UNIONQUADRI sindacato dei quadri direttivi, professionisti e ricercatori delle aziende rivolge la propria attenzione agli importanti mutamenti che coinvolgono la tecnologia, l’economia ed il mondo del lavoro e si pone come tramite tra le fasce di lavoratori maggiormente professionalizzate e le direzioni aziendali in un’ottica di collaborazione nell’interesse dell’azienda intesa anche come comunità.

Ne deriva l’interesse di UNIONQUADRI per ogni forma utile di incontro tra interessi del lavoro e dell’impresa.

avv. Fabio Petracci

Concorsi pubblici 2025: cosa cambia?

Il Decreto-Legge PA, che dovrebbe recare disposizioni urgenti in materia di reclutamento, organizzazione e funzionamento delle pubbliche amministrazioni, dovrebbe essere approvato nel corso del mese di febbraio 2025.

Attualmente, la bozza del decreto contiene al proprio interno l’intenzione di procedere ad una centralizzazione dei concorsi pubblici: a gestire tutti, o quasi, i concorsi dello Stato centrale dovrebbe essere il Dipartimento della Funzione pubblica attraverso la Commissione Ripam (Commissione per l’attuazione del Progetto di Riqualificazione delle Pubbliche Amministrazioni).

Pertanto, non dovrebbero essere più autonomamente le singole amministrazioni a gestire le selezioni e/o le graduatorie autonomamente, dovendosi invece riconoscere tale competenza alla Commissione Ripam.

Pertanto, al fine di garantire maggiore operatività alla Commissione Ripam, la bozza di decreto prevede altresì specifiche disposizioni per il rafforzamento di detta Commissione.

Nel dettaglio, sarebbe prevista l’istituzione di un ufficio dirigenziale di livello generale, articolato due servizi di livello dirigenziale non generale, con conseguente incremento della dotazione organica della Presidenza del Consiglio dei ministri, nonché di un contingente costituito da non più di trenta unità di personale che possono essere scelte nell’ambito del personale appartenente ai ruoli della Presidenza del Consiglio dei ministri o di altre pubbliche amministrazioni.

Ancora, al fine di garantire il ricambio generazionale, la bozza di decreto prevede il reclutamento di soggetti in possesso del diploma di specializzazione per le tecnologie applicate, ovvero del diploma di specializzazione superiore per le tecnologie applicate rilasciato dagli Istituti tecnologici superiori (ITS Academy), nonché appositi percorsi di formazione per il personale eventualmente reclutato.

Dovrebbero inoltre essere introdotte specifiche disposizioni per garantire la stabilizzazione dei lavoratori e quindi superare il fenomeno del precariato dei giovani nella pubblica amministrazione.

Alberto Tarlao

Giudici di pace e diritti dei Magistrati, cosa ne pensa l’Europa.

Il Centro Studi di CIU UNIONQUADRI che sempre si occupa delle normative concernenti professionisti ed alte professionali prende in esame l’attuale situazione dei giudici onorari che salve le (poco) minori competenze di legge svolgono sostanzialmente lo stesso lavoro dei giudici ordinari con un trattamento notevolmente inferiore al limite dei valori costituzionali e comunitari.

Attualmente il rapporto dei giudici di pace ivi compresi tutti i magistrati onorari è disciplinato dal DLGS n.116/2017 che stabilisce come l’incarico di magistrato ordinario abbia la durata di quattro anni e come alla scadenza esso possa essere confermato a domanda per un secondo quadriennio con la durata massima di otto anni complessivi indipendentemente dalle funzioni svolte, con automatica cessazione al compimento del sessantacinquesimo anno di età.

Stabilisce inoltre l’articolo 23 della medesima disposizione di legge come l’indennità spettante ai magistrati onorari si compone di una parte fissa e di una parte variabile di risultato.

Inoltre ai magistrati onorari che esercitano funzioni giudiziarie è corrisposta, con cadenza trimestrale, un’indennità annuale lorda in misura fissa, pari ad euro 16.140,00, comprensiva degli oneri previdenziali ed assistenziali.

Per quanto riguarda i periodi di riposo, il successivo articolo 24 stabilisce che i magistrati onorari non prestano attività durante il periodo feriale di cui all’articolo 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, salvo che ricorrano specifiche esigenze d’ufficio; in tal caso, è riconosciuto il diritto di non prestare attività nel periodo ordinario per un corrispondente numero di giorni. L’indennità prevista dall’articolo 23 è corrisposta anche durante il periodo di cui al presente articolo.

In proposito, La Corte costituzionale, con sentenza 11 gennaio – 3 febbraio 2022, n. 31 (Gazz. Uff. 9 febbraio 2022, n. 6, 1ª Serie speciale), ha dichiarato, fra l’altro, la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. da 1 a 33 sollevate, con riferimento agli istituti in questione.

A suo tempo però la Commissione Europea segnalava all’Italia il mancato allineamento al diritto comunitario per quanto atteneva la prestazione dei magistrati ordinari.

In particolare la Commissione riteneva che il rapporto instaurato tra lo Stato Italiano ed i magistrati onorari (giudici di pace, vice procuratori onorari e giudici onorari di tribunale) non rispettasse i principi comunitari in tema di diritto alle ferie, lavoro a tempo determinato.

Poiché lo Stato italiano non provvedeva in merito, interveniva la Corte di Giustizia UE con la sentenza n.73 del 27 giugno 2024.

Ha ritenuto la Corte di Giustizia che la normativa nazionale in materia di giudici di pace che la mancata previsione per questa categoria di un diritto a beneficiare di 30 giorni di ferie annuali retribuite né di un regime assistenziale e previdenziale come quello previsto per i magistrati, nonché la mancata previsione di un termine massimo di tre rinnovi successivi per i contratti a termie, era da considerarsi in violazione delle normative comunitarie in materia.

Fabio Petracci

Ceto Medio, Lavoro, Economia.

Il sindacato CIU Unionquadri come noto, opera nel campo del lavoro e della sicurezza sociale, nell’interesse delle professionalità medio al fine di veder loro riconosciuto il ruolo e la posizione sociale ed economica.

Il tema in maniera più ampia politica e sociologica involve il ceto medio italiano.

Partiremo nell’inquadrare l’argomento da una recente ricerca del CENSIS (Il valore del ceto medio per l’economia e la società Rapporto finale Roma, 20 maggio 2024 FONDAZIONE CENSIS 2).

Si ritiene che di fronte all’erosione del benessere economico, il ceto medio che sin qui ha svolto un ruolo fondamentale nel progresso del paese e nelle aspettative di ascesa sociale stia subendo un profondo declassamento economico e sociale, anche se un reponderante maggioranza di italiani ritiene ancora di appartenere al ceto medio, come collocazione più sociale che economica.

La percezione è pero quella di chi si rende conto come ormai, nella scala sociale, sia molto difficile salire, ma molto facile scivolare in basso. Assistiamo quindi alla fragilizzazione della condizione del ceto medio italiano.

Del resto molti dei processi globali ed internazionali che generano la ricchezza, appaiono quanto mai lontani ed impenetrabili. Le conseguenti azioni dei governi sono sempre più interdipendenti da contesti internazionali non sempre allineati con le aspirazioni dei cittadini appartenenti al ceto medio.

Vi concorre inoltre a livello nazionale un fisco non sempre orientato a premiare impegno e capacità ed un welfare volto quasi esclusivamente a favore dei redditi più bassi e per nulla orientato ad una copertua anche parziale dei redditi medi.

L’impoverimento della classe media certamente è dovuto sia blocco dell’ascensore sociale  ma anche alla precarizzazione del lavoro non solo quello operaio ma anche quello intellettuale, inoltre la globalizzazione  con la ricerca del massimo profitto senza conoscenza ed innovazione ha determinato l’allontanamneto di parte della produzione industriale dai paesi occidentali ai paesi in via di sviluppo senza che si sia bilanciatà questa scelta nefasta e pseudo colonialista, con lo sviluppo dei settori ITC e di centri di ricerca ed innovazione tecnologica.

Non facilita la creazone e l’incremento di una classe manageriale una scuola altamente burocratizzata con un corpo insegnante non sempre adeguatamente selezionato. Questo perdita di ruolo della scuola sia valoriale che di contenuto tende a far percepire l’istruzione come diplomificio necessario per lavorare ma poi alla fine del ciclo anche i ragazzi/e si rendono consapevoli dello itao tra istruzione emondo del lavoro.

Si accompagna a tali considerazioni, la condizione di pensionati anche longevi e di buon reddito che vedono realizzarsi una costante diminuzione del potere d’acquisto e la riduzione di ogni forma di indicizzazione.

La stessa rigidità delle opzioni pensionistiche non tiene affatto conto di chi, come spesso gli appartenenti al ceto medio, vuole e può ancora lavorare.

Aspetto non secondario che manca nel dibattito politico-sindacale è la problematica sociale determinata dall’inflazione, si ipotiza ingenuamente che baterebbe aumentare i salari  e questo automaticamente  determinerebbe un recupero di potere di acquisto e di ruolo sociale dei ceti medi oggi fortemente penalizzati, ma ciò è falso e ci fa comprendere che la globalizzazione ha fatto e fa credere che l’economia sia un fenomeno determinatistico. L’aspetto principe non è il salario in sè ma il suo potere di acquisto dunque il rapporto salario prezzi senza creare falsi automatismi. Per controllare l’inflazione non si può lasciare al libero mercato tout court visto le storture determinalte dalla globalizzazione.  Serve un intervento dello stato e delle parti sociali  nel determinare il controllo dei prezzi e dunque norme a tutela di tali accordi con una burocrazia che se da un lato dovrebbe snellirsi dall’altro deve aumentare le competenze rigurdo i controlli anche in questo settore dove la speculazione parissatiria è alta.

Sotto l’aspetto culturale e sociologico, notiamo la caduta di valori tradizionali, ma non superati, come il merito il talento, l’ascesa sociale ed il lavoro in genere, sta determinando giovani demotivati per una rottura di quei valori che determinano il senso di appartenza e di saqudra che valorizzano quei sentimenti umani di solidarietà e di appartenenza e che sono parte integrante del bisogno umano di sentirsi utili per se e per gli altri, coloro che hanno queste sensibilità purtroppo si  allontanano dal nostro paese in cerca di fortuna altrove. Il dinamismo sociale ancora presente tra i giovani non trova risposte adegute nel nostro paese.

Lo stesso concetto di ricchezza è spesso demonizzato, collegato al malaffare, mentre dovrebbe costituire un obiettivo legittimo dentro regole condivise.

L’ossessione per il ritorno al passato sempre ritenuto migliore ed osannato da certi media (non sempre disinteressati), crea diffidenza per la scienza e per progetti di innovazione dovuto anche ad un fenomeno oggettivo che i figli oggi stanno peggio dei padri

Un diverso orientamento socio – culturale potrebbe assumere un ruolo fondamentale per motivare le persone in grado di guidare il rilancio del paese.

Un rilancio della pubblica amministrazione e della managerialità e non solo a livello di dirigenza, potrebbe contribuire a superare almeno certi vincoli burocratici ed a favorire le nuove tecnologie che spesso diventano solo oggetto di occhiuta regolamentazione.

Secondo la ricerca che abbiamo citato in fase di introduzione, la fase di declino del ceto medio che viene segnalata inizia con la crisi economica del 2007 / 2012 ed ha mutato spesso a livello non adeguatamente percepito gli stili di vita di coloro che ancora in maggioranza si sentono ceto medio.

Va evidenziato in proposito come l’asse della creazione del reddito che interessava in primo luogo il ceto medio ed i lavoratori altamente professionalizzati, con la rivoluzione digitale si sia spostato fuori dai confini nazionali ed addirittura europei.

Contestualmente, avviene una rilevante dislocazione dei processi di creazione della ricchezza fuori dall’Italia e dalla UE verso economie di recente sviluppo che vedono specularmente dei processi di formazione di un ceto medio, simili a quelli che a suo tempo si sono verificati in Italia.

Nel nostro paese, si verifica una rapida concentrazione della ricchezza che amplia le disparità sociali.

Le misure comunitarie imposte dalla necessità di un governo sovranazionale dei processi globali come ad esempio la lotta al riscaldamento globale e la relativa transizione energetica ha posto ulteriori problemi ad un ceto medio già impoverito e non in grado economicamente di assecondare queste scelte.

Quindi oggi, il 65% degli italiani si sente ceto medio, ma più nominalmente che economicamente. ( trattasi infatti di redditi che vanno dai 15.000 euro annui  ai 34 milae dai 35.000 euro ai 50.000.

In questi gruppi rilevante è la presenza di anziani (over 65) e di persone in possesso di diploma o laurea.

Del resto gli ultra sessantacinquenni in possesso di titolo di studio superiore hanno avuto un ruolo da protagonisti nella fase alta dello sviluppo economico sociale del nostro paese.

Nella fase attuale, prevale nell’ambito del ceto medio la propensione a difendersi dai rischi di caduta in basso, piuttosto che a migliorare il proprio status.

Di fronte a questa realtà, è quanto mai necessario modificare l’assetto professionale e retributivo nei contratti di lavoro e prima ancora migliorare gli assetti scolastici ed universitari, incrementando le fasce di lavoratori che, anche se non dirigenti, sono portatori di professionalità come i quadri, i professionisti sia liberi che dipendenti, i ricercatori.

Fabio Petracci

Roberto Giuliano

Staff leasing: rinviata alla CGUE la questione del requisito di temporaneità.

Il DLGS 81/2015 (Jobs Act) agli articoli da 30 a 40 disciplina la Somministrazione di Lavoro (lavoro interinale) definito dall’articolo 30 come il contratto a tempo indeterminato o determinato con il quale un’agenzia di somministrazione autorizzata dalla legge, mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la direzione ed il controllo dell’utilizzatore.

Come dato a vedere, la somministrazione può avvenire a tempo determinato o a tempo indeterminato (cosiddetto staff leasing).

Limiti percentuali pari al 20% della forza lavoro sono imposti dalla legge per quanto riguarda la somministrazione a tempo determinato ed un limite maggiore del 30% per la somministrazione a tempo determinato.

I lavoratori somministrati a tempo indeterminato debbono essere stati assunti a tempo indeterminato dal somministratore.

La somministrazione a tempo determinato è soggetta inoltre al limite di utilizzo di 24 mesi per ciascun lavoratore, anche non continuativi, potendo superare detto limite senza che si costituisca un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’utilizzatore, ma esclusivamente con la conseguenza della costituzione di un rapporto a tempo indeterminato con l’utilizzatore. Detta disposizione per espressa previsione di legge è destinata ad avere vigore sino al 30 giugno 2025.

Precisa la legge come il contratto di somministrazione sia vietato per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero,  presso unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi, presso unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario in regime di cassa integrazione guadagni, che interessano lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione di lavoro; da parte di datori di lavoro che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.

Mentre il contratto di lavoro intercorre tra il somministratore ed il dipendente somministrato, il rapporto tra somministratore ed utilizzatore è disciplinato dal contratto di somministrazione vero e proprio contratto commerciale che deve contenere tutta una serie di requisiti formali stabiliti dalla legge.

Il contratto di somministrazione va pertanto stipulato in forma scritta e deve contenere una serie di dati essenziali per la sua validità quali: gli estremi dell’autorizzazione rilasciata al somministratore; il numero dei lavoratori da somministrare;)  l’indicazione di eventuali rischi per la salute e la sicurezza del lavoratore e le misure di prevenzione adottate; la data di inizio e la durata prevista della somministrazione di lavoro; le mansioni alle quali saranno adibiti i lavoratori e l’inquadramento dei medesimi; il luogo, l’orario di lavoro e il trattamento economico e normativo dei lavoratori.

Con il medesimo contratto l’utilizzatore assume l’obbligo di comunicare al somministratore il trattamento economico e normativo applicabile ai lavoratori suoi dipendenti che svolgono le medesime mansioni dei lavoratori da somministrare e a rimborsare al somministratore gli oneri retributivi e previdenziali da questo effettivamente sostenuti in favore dei lavoratori.

Somministrazione a tempo indeterminato e somministrazione a tempo determinato.

L’agenzia di somministrazione può assumere il lavoratore in entrambe le forme di cui sopra.

Nel caso di assunzione a tempo indeterminato il contratto con l’agenzia avrà tutte le caratteristiche del contratto a tempo indeterminato e nei periodi nel corso dei quali il lavoratore non sarà inviato in missione presso l’utilizzatore, gli dovrà essere corrisposta un’indennità di disponibilità.

Per quanto invece riguarda l’assunzione a tempo determinato, la legge stabilisce l’applicabilità della normativa sui contratti a termine.

Si ribadisce rispetto ai contratti a termine, l’applicazione del termine massimo di durata del contratto a termine, le ipotesi del limite totale di 24 mesi per le assunzioni a termine, la disciplina delle proroghe e della sanzione consistente nella trasformazione del contratto in tempo indeterminato, si esclude il limite degli intervalli tra un contratto a termine e l’altro ed il diritto di precedenza.

Per quanto riguarda la retribuzione dei lavoratori somministrati durante la missione, a parità di mansione, essa non può essere nel suo complesso inferiore a quella dei dipendenti dell’utilizzatore di pari livello.   Inoltre, l’utilizzatore è obbligato in solido con il somministratore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e a versare i relativi contributi previdenziali, salvo il diritto di rivalsa verso il somministratore.

Da quanto sin qui emerso dal dato testuale della legge, si ricava che il contratto di somministrazione a tempo indeterminato non presenta limiti di durata.

Dunque il somministrante può inviare in missione presso l’utilizzatore un dipendente che intrattenga con il somministrante un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Di recente però, il Tribunale di Reggio Emilia, Sezione Lavoro, con l’ordinanza del 7 novembre 2024 ha disposto il rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea della questione pregiudiziale per verificare se la normativa nazionale si ponga in violazione della Direttiva 2008/104/CE che impone il requisito della temporaneità al contratto di somministrazione lavoro.

Fabio Petracci

Assunzioni PA e riduzione turnover.

Anche a seguito delle osservazioni formulate da CIU UNIONQUADRI nel corso dell’audizione dell’11 novembre 2024 da parte del Consiglio dei Ministri, nell’approvazione della legge Finanziaria per il 2025, il taglio del turn over nella pubblica amministrazione, ha subito rilevanti eccezioni e delimitazioni.

Grazie alle modifiche apportate alla legge di Bilancio per il 2025, per numerose pubbliche amministrazioni, sarà possibile sostituire il 100% dei dipendenti che lasciano il servizio.

È stato così modificato l’articolo 110 della Legge di Bilancio 2025, rivedendo in maniera rilevante il taglio del turn over nelle pubbliche amministrazioni.

Potranno così assumere nella misura del 100% dei posti liberi, gran parte degli Enti Locali, comprese le Regioni, le Camere di Commercio, i Corpi di Polizia, i Vigili del Fuoco, le Università per quanto attiene i ricercatori, Il Ministero di Giustizia per il personale togato della Magistratura.

Trascriviamo in parte il testo del documento redatto da CIU UNIONQUADRI sul punto in occasione della consultazione:

“Sui punti che riguardano il Pubblico Impiego, il nostro sindacato non può non guardare che con favore quelle misure che consentono al lavoratore la libertà nel determinare il momento di cessazione del rapporto di lavoro.

Ancor più favorevolmente è da noi vista la possibilità di trattenimento volontario in servizio per attività di tutoraggio ed accompagnamento dei nuovi assunti.

Resta irrisolto il problema di voler conciliare questa normativa con la riduzione del turn over al 75% delle risorse.

La riduzione del turn over acuisce il proprio effetto con il trattenimento in servizio di una parte del personale.

Temiamo in questo modo, possa essere compromessa l’immissione di giovani generazioni nella pubblica amministrazione e l’assunzione di personale da inserire nell’area delle elevate professionalità (EP).”

Fabio Petracci

Attività Centro Studi a supporto a CIU UNIONQUADRI.

In data 14 febbraio 2025, CIU UNIONQUADRI unitamente alla propria delegazione del FVG e dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale sottoscriverà apposito accordo aziendale unitamente ad altri sindacati a suggello della propria rappresentatività in azienda.