Dìgnìtà del lavoro: l’indimenticata e attualissima lezione di F. Caffè.
Un volume racconta <1 posto degli uomini abbiamo sostituito numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei ‘equilibri contabili». Appare strano oggi, specialmente alla luce dell’emergenza energetica e dei comportamenti poco solidali di alcuni Paesi europei, pensare che queste parole sono state pronunciate da un economista. Da un maestro ed intellettuale lontano dai luoghi comuni, aggiungerebbero con commozione migliaia di suoi allievi; da un riformista vero, progressista e antifascista, ribadirebbero con riconoscenza non pochi rappresentanti del mondo sindacale e del lavoro; da un europeista dubbioso, ricorderebbero altri. Ma anche da un umanista appassionato di giustizia sociale; da uno tra i più tenaci difensori del Welfare state e i più inflessibili nemici del retoricume neoliberista, come lo definiva, delle speculazioni in Borsa e del capitalismo finanziario, di cui denunciava gli inganni e i ricatti e che, anche per tali ragioni, considerava «una degenerazione del sistema economico». Quelle parole, troppo a lungo inascoltate ma divenute più necessarie che mai in un’epoca come la nostra, sono appartenute a Federico Caffè, tra i maggiori intellettuali italiani del secondo Dopoguerra e il più importante divulgatore, nel nostro Paese, del pensiero di John Maynard Keynes e degli economisti scandinavi. Di stupefacente attualità, rappresentano un frammento di un articolo pubblicato nel 1986, l’età d’oro del libero mercato, sulla rivista Micromega dal titolo «Umanesimo e Welfare». «Un disavanzo previdenziale, pur se soggetto a oscillanti valutazioni, è una cifra che fa sempre notizia ed evoca baratri incolmabili e altre immagini di una catastrofe prospettata con la stessa frequenza con la quale viene in pratica rinviata. Ma le file di persone anziane che attendono innanzi agli uffici postali, nelle condizioni climatiche più disagiate, per la riscossione degli importi loro attribuiti, vengono considerate come un fatto di natura, al pari delle condizioni climatiche cui sono soggette», scriveva Caffè, sottolineando, in questo modo, l’irrinunciabilità dei concetti che hanno guidato lo sviluppo del suo potente pensiero economico e l’etica della sua intera, mite esistenza. La costante attenzione verso i più fragili, la certezza che l’economia dovesse essere al servizio dell’uomo e non viceversa, la convinzione della centralità del lavoro, l’idea di uno Stato concepito come garante di benessere sociale e di uguaglianza di possibilità. Sapeva, in quanto intellettuale, di avere un compito: «Quello di indicare un modello alternativo e di dimostrare che si tratta di un modello possibile», aveva spiegato a Fernando Vianello in una intervista per il giornale Sinistra 77. Per la maggior parte delle persone il suo nome si accosta essenzialmente alla sua misteriosa scomparsa avvenuta nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1987, a 73 anni, dalla casa romana di via Cadlolo dove viveva con il fratello Alfonso: un allontanamento enigmatico (sullo scrittoio aveva lasciato le chiavi dell’appartamento, gli occhiali da vista, il passaporto, la carta di identità e due biglietti di auguri pasquali) seguito con apprensione dalla stampa dell’epoca che usava evidenziarne le analogie con la sparizione, quasi mezzo secolo prima, di Ettore Majorana, e contrassegnato dalla sentenza del Tribunale di Roma che l’8 agosto 1998 ne ha dichiarato la morte presunta. Ma per tutti gli altri, per chi lo ha conosciuto da vicino, per quanti hanno studiato i suoi testi, per coloro che con lui hanno collaborato o si sono laureati in Politica economica e finanziaria alla Sapienza di Roma – ben 1.200 studenti dal 1959 al 1987: tra loro anche Mario Draghi e Ignazio Visco – «il più keynesiano degli economisti italiani» è stato molto di più. A tentare di raccontarlo in un appassionante volume da poco uscito per Fazi Editore, «Maestro delle mie brame. Alla ricerca di Federico Caffè», è proprio uno dei suoi allievi, Daniele Archibugi, studioso di Economia politica, docente formatosi nel Regno Unito (come Caffè) e a lungo tra gli amici più intimi e devoti. Non ancora trentenne al tempo della scomparsa del maestro, la mattina del 15 aprile è tra i primi ad arrivare in via Cadlolo, dopo aver ricevuto un’angosciosa telefonata. «Ciao, Daniele, sono Alfonso. Vmicio [così Federico Caffè era chiamato in famiglia, nda] è scappato di casa». Partendo da qui, Archibugi arriva a delineare, pagina dopo pagina, la figura di un pensatore schivo e autorevole, desideroso di confrontarsi con il proprio tempo ma allo stesso tempo fortemente condizionato in ogni singola scelta dal suo particolare aspetto fisico; ne narra la capacità maieutica e l’entusiasmante umanità ma ne descrive anche, di converso, l’umanissima malattia di cui soffriva: la depressione. Silenzioso eppure mai apertamente negato, il suo male oscuro si era aggravato negli ultimi anni con la fine dell’insegnamento e la tragica morte di tre allievi prediletti – tra questi, Ezio Tarantelli, ucciso dalle BR nel 1985 – raggiungendo il suo climax nella sconvolgente sparizione. Un distacco a cui, secondo Ermanno Rea (vedi «L’ultima lezione», Einaudi, 2000), lo stesso Caffè ha voluto imprimere «una natura oscura», poiché egli «non agi in maniera estemporanea, sull’impulso di una decisione repentina. Pianificò la fuga preordinandone ogni movimento fino al più banale». Raccogliendo i ricordi propri, carichi ancora oggi di tensione, di compassione e di affetto, insieme a quelli delle persone a lui più prossime, decifrando il lunghissimo e variegato carteggio intercorso tra il professore e il padre, Franco Archibugi – cominciato nel 1945 quando il primo aveva trent’anni e il secondo, che diverrà un importante esperto di strategie di pianificazione e coordinerà l’ufficio studi della Cisl, appena diciannove -, l’autore ci permette di osservare da vicino la figura di un uomo complesso. Così malinconico e rassegnato che a soli trentatré anni diceva di sentirsi come «un cavallo cieco forzato a girare la ruota del frantoio», così ironico e spiritoso da perdersi nei giochi dei bambini come quando, negli anni Sessanta, caricava sulle spalle il piccolo Daniele e lo portava avanti e indietro come fosse un calesse lungo il corridoio del suo appartamento. Così avido e allo stesso tempo così generoso di sapere, quando si intratteneva con Franco in vivaci e pungenti discussioni di natura economica, filosofica, musicale, letteraria che spesso e volentieri terminavano con l’invenzione di complicatissimi quiz. O quando si dilettava a scrivere i suoi «Fondi di Caffè» sul Manifesto, che alternava alla stesura di saggi, di traduzioni e alle consulenze per la casa editrice Laterza. Nato in una famiglia assai modesta della Pescara di oltre cent’anni fa, il riscatto, per “Chicco” (come lo chiamavano gli amici più stretti), era arrivato proprio con lo studio, grazie al quale molti anni dopo riuscì persino a ricomprare il piccolo podere che la madre aveva venduto per consentirgli di frequentare l’Università. Con i frutti del suo lavoro aveva acquistato anche il pied-à-terre segreto in via dei Capocci a Roma, che aveva poi rivenduto a Bruno Amoroso, allievo e amico sincero. Cocciuto e laborioso, era noto per una rettitudine morale che lo aveva portato, negli anni Sessanta, ad interrompere una trentennale collaborazione con la Banca d’Italia per dedicarsi esclusivamente all’insegnamento, poiché, aveva confessato nella lettera di dimissioni, il «percepire un compenso mensile da parte della Banca […] è per me inaccettabile, ove non trascorra almeno parte della giornata nella Banca stessa». «Se un’eredità di Federico Caffè esiste», riflette al telefono Daniele Archibugi, che oggi dirige a Roma gli studi sulla Ricerca e l’innovazione del Cnr e insegna Innovazione, Governance e Politiche pubbliche al Birkbeck College dell’Università di Londra, «è quella che nessuno va lasciato indietro: tutti devono essere aiutati a rimettersi in piedi quando sono in difficoltà. Nel suo Abruzzo aveva visto la distruzione provocata dalla guerra ma ne aveva osservato anche la rinascita; aveva una conoscenza molto pragmatica e, tuttavia, molto reale di ciò che la politica economica poteva fare per la vita delle persone. Non era a favore dell’assistenzialismo: era convinto, invece, che la dignità derivasse dal lavoro e che tutte le persone avessero il diritto di vivere felicemente del proprio lavoro. Non si rende felice una persona dandole un sussidio, ribadiva, ma un lavoro appropriato alle sue capacità». Da umanista, continua Archibugi, Caffè non approverebbe la natura computazionale dell’economia attuale. «Era assai critico verso il capitalismo finanziario poiché per lui possedere un capitale è già di per sé un impegno a produrre: aveva addirittura lanciato la proposta – in realtà, una provocazione – di socializzare la Borsa. Quel che dovremmo assolutamente fare, e in questo la lezione di Federico Caffè ci appare indispensabile, è cambiare il modo in cui intendiamo l’attività economica. Ci troviamo in una situazione in cui c’è un mostro senza testa che sta divorando tutto: bisogna che qualcuno metta ordine nel processo economico perché nessuno è più in grado di controllarlo. L’economia», conclude l’autore, «deve tornare a poggiare su pilastri umanistici e il lavoro deve tornare ad essere la sua solida base. Non è più sostenibile che in una situazione in cui abbiamo così tante necessità primarie insoddisfatte si continui a sprecare la risorsa economica e sociale più importante, che è proprio il lavoro».